*Versione tradotta dall’inglese
In Italia, stiamo lentamente uscendo da una lunghissima e severa quarantena dovuta all’emergenza Covid-19, in cui siamo stati tutti costretti a vivere confinati in una dimensione domestica (quelli di noi, che hanno la fortuna di avere un luogo sicuro dove viverla) ed in cui ci è stato chiesto, probabilmente per la prima volta nella nostra vita, di evitare gli spazi condivisi per la nostra sicurezza e per la sicurezza degli altri.
Messe da parte le paure ed il senso di disorientamento che la pandemia ha portato con sé, la conseguenza immediata, per molti, è stata sentire la mancanza di amici, parenti e della vita sociale in generale: la normalità è diventata improvvisamente straordinaria. Nella nostra mente, il senso di assenza degli altri e di una parte di noi stessi, hanno immediatamente trovato la loro collocazione nei luoghi che ci erano proibiti, erano chiusi, negli spazi che descrivevano ciò che siamo.
I luoghi di lavoro, il solito bar dove incontrare gli amici, la palestra o anche i mezzi pubblici, sono diventati significanti per il fatto di essere chiusi, in quanto rappresentavano gli scenari del nostro vivere quotidiano, i luoghi dove si svolgeva il nostro essere sociale. Allo stesso tempo, in una società patriarcale come quella italiana (e so che potrei sembrare estrema, ma la politica del governo italiano durante questa crisi – così come la mia esperienza di vita! – mi spinge ad affermarlo), molte donne hanno cominciato a sentire, ancora più drammaticamente, la perdita della dimensione sociale, la perdita dei luoghi in cui poter affermare la loro presenza e la loro indipendenza e questo, senza considerare i tanti (ahimé!) disperati casi di violenza domestica, dove la costrizione domestica rende impossibili anche le più semplici attività.
Potremmo dire, quindi, che la pandemia ha reso criticità quelle che erano esigenze scontate ed ha reso palese un fatto fondamentale: che siamo tutti esseri sociali che hanno bisogno di spazi di condivisione. Si tratta di una realtà resa criticità da una società come la nostra, fitta di messaggi contraddittori e di bisogni individualistici, in cui si giunge persino ad immaginare la possibilità di attuare spazi per un contratto sociale ridotto.
Le percezioni distorte della società contemporanea sono rese più pressanti dal fatto che i bisogni consumistici costringono e cercano di sostituire i bisogni umani fondamentali. La quarantena forzata è divenuta infatti, anche un periodo storicamente unico, in cui l’attività consumistica è stata, forza maggiore, in parte limitata, cosa mai avvenuta prima per la mia generazione. Questa coincidenza- opportunità, più unica che rara, ha quindi mostrato chiaramente l’invasività del consumismo sulle nostre percezioni esistenziali: infatti, non è stato un caso che in Cina (ma anche in piccolo nella mia città), quando l’isolamento è finito, molte persone, quelle che potevano permetterselo ma anche quelle che forse non potevano, siano corse nei negozi di lusso, anche svuotando gli scaffali (come nel Wuhan). In pratica, molte persone, sentendosi liberate dalla costrizione della quarantena, invece di reagire con finalità esistenziali al sentimento di mancanza vissuto, hanno cercato la risposta, più facile ed immediata, della fugace gratificazione data dal consumo.
Si è palesata un generalizzato senso di mancanza, che non va trascurato nonostante il processo di normalizzazione, anche se inevitabilmente ritornare alla normalità delle attività quotidiane ci porta quel un senso di rassicurazione nella familiarità. Certo, non siamo ancora capaci di decifrare ancora quali saranno i cambiamenti che ci aspettano nel dopo, nel bene e nel male. Certamente molte cose che potremmo voler cambiare si dimostreranno ancora più radicate ma, allo stesso modo ci saranno cose che saranno definitivamente cambiate e che non potranno ritornare più quelle di prima.
Uno degli aspetti più ironici dell’isolamento è stato notare che, nonostante sia stato un tempo di separazione fisica e di isolamento sociale, di separazione forzata anche dalle persone normalmente molto vicine a noi, questo sia stato universalmente riconosciuto come tempo di condivisione e di perseguimento di finalità comuni. Paradossalmente, la solidarietà di fronte ad una minaccia esistenziale si è realizzata in concomitanza con la paura costante di essere contaminati da altre persone, dai nostri vicini, dai nostri amici.
Queste realtà evidenti ma, nascoste, mi hanno fatto pensare al ruolo dell’arte e di alcuni artisti che hanno la capacità di mostrare aspetti della vita contemporanea che, pur presenti e carichi di significati, sono percepiti come instabili ed inaffidabili. In particolare, proprio perché molta della nostra esperienza recente ha visto determinati luoghi come proibiti o permessi, chiusi o aperti, la mia attenzione si è concentrata su quei artisti che hanno cercato di mostraci la presenza ed i significati, a volte inesplorati, degli spazi sociali e condivisi.
Molto spesso, infatti, l’arte è vista come qualcosa di lontano dalla vita quotidiana e dai suoi problemi e ciò, se da una parte può essere un bene, perché lascia spazio ad un pensiero libero non zavorrato dalla mondanità della routine quotidiana, dall’altra è anche un male, perché crea uno spazio di fantasia, un altrove, una facile fuga dalla nostra responsabilità di agire e di pensare insieme. Queste percezioni contrastanti sono comuni e si possono trovare spesso in molta di quell’arte che oggi “segue la moda” dell’impegno sociale ma che, se esaminata attentamente, rivela la sua superficialità di contenuti oggettivi e formali. Nonostante tutto però, ci sono artisti il cui impegno e la cui sollecitudine sono evidenti e rispondono nella realtà ad un afflato sociale autentico.
Credo senza dubbio che uno di questi sia Yorgos Sapountzis, il cui lavoro si concentra, in gran parte, sul modo in cui viviamo e ci relazioniamo con le strade, i monumenti, la condivisione degli spazi sfidando, allo stesso tempo, le convenzioni ed i falsi limiti che distinguono gli spazi tra quelli espositivi e quelli pubblici.
Credo sia utile, allo scopo di questa narrazione, ricordare un suo progetto da me curato a The Kitchen di New York “Soft World-Hard World”, (per la mostra “Common Spaces”, ISP del Whitney Museum) non solo per il modo in cui la performance è stata accolta dal pubblico ma, soprattutto, per lo spirito di condivisione ed empatia che si è creato tra i performer e, a loro volta, tra i performer ed il pubblico. Un progetto nato attraverso una conversazione, una comprensione ed un’attenzione aperta verso gli spazi ed il modo in cui li viviamo.
Una performance collettiva site-specific nel quartiere di Chelsea (la location di The Kitchen) che si è sviluppata attraverso workshop pubblici con i partecipanti alla performance presso la West Beth Residents Council. Chelsea, che oggi è un quartiere costoso di New York, un tempo era un quartiere misto, pericoloso, con una vivace vita culturale e The West Beth fu creato come condominio per dare case e studi agli artisti a prezzi abbordabili. Ora è un’isola nel mezzo di una massiccia espansione urbanistica con il conseguente processo di gentrificazione che ha creato, nel corso degli anni, una rottura sociale con la realtà del passato, in cui, anche se la gente può ancora permettersi di pagare un affitto presso il West Beth, non ha la possibilità economica di vivere il quartiere, di spendere nei suoi negozi, ristoranti o bar.
Sapountzis, attento a questa rottura (ovviamente non il primo artista ad esserlo stato) tra il luogo, la sua storia, le persone che l’hanno fatta, quelli che sono rimasti, quelli che sono solo passati ed i nuovi abitanti, ha immaginato un progetto che collegasse il trasgressivo, vivido, passato del quartiere, all’attuale paesaggio urbano, fatto di gallerie d’arte e di uffici e appartamenti di lusso.
La performance quindi, è stata immaginata come un percorso che dallo spazio espositivo si aprisse alle strade del quartiere per ritornarci con un’installazione site specific che comprendeva materiali, come tubi, tessuti, oggetti trovati e detriti in generale, portati dallo spazio di strada, dalle case e dai laboratori. Partendo da The Kitchen, la performance, che si è svolta lungo alcuni isolati di Chelsea con una coreografia astratta e collettiva, ha rielaborato i suoni ed il movimento, gli incontri e le separazioni che descrivono le dinamiche del quartiere. La perfomance, riproducendo i rumori dei lavori in corso che sono ovunque in quella zona della città, ha visto una partecipazione involontaria (ma voluta dall’artista), del suono dei lavori di centinaia di costruttori, presi nell’opera di edificazione dei tanti costosi condòmini che ormai svettano ad ogni isolato ed incrocio. Anche questo suono è stato campionato, incorporato nell’evento e riprodotto poi all’interno dell’installazione site specific all’interno dello spazio espositivo, come a ricreare un’eco, una colonna sonora familiare del luogo.
È stato un progetto che ha sfidato con forza la falsa separazione tra lo spazio espositivo, come spazio chiuso o condizionato – come gli spazi privatizzati che attualmente proliferano nelle nostre città – e lo spazio pubblico. Ma ha anche suscitato una comprensione collettiva, per gli artisti e per il pubblico, di cosa significhi abitare e condividere gli spazi pubblici, dove la necessità di essere consapevoli e attenti a ciò che accade ogni giorno intorno a noi – nel plasmare e rimodellare il luogo in cui viviamo e la storia – significa divenire un protagonista pubblico e quindi politico.
In un certo senso, possiamo pensare a “Soft World-Hard World” come ad un richiamo a dare conto delle forze diverse ed opposte che condizionano, e in parte determinano, la vita nelle nostre città e, più in generale, della società contemporanea. Il bisogno umano di condivisione e di relazione, facilmente comprensibile ed accessibile e che coinvolge lo spazio ed il tempo, luogo in cui abbiamo la possibilità di agire e di essere effettivi, ha bisogno di essere costantemente riconosciuto, curato e sostenuto. Si tratta proprio di quel tempo e di quello spazio che è costantemente messo in discussione dalle esigenze della produzione e del consumo. Una dinamica celatamente repressiva che, durante la quarantene, abbiamo visto palesarsi nella pressione economica entrata nel dibattito riguardante la fine all’isolamento ed il calcolo di ciò che costituisce un rischio gestibile.
Gli spazi di condivisione, che sono parte essenziale del nostro essere sociale e dell’essere individuale, sono diventati sempre più limitati, e limitanti (anche senza i confini domestici dell’epidemia). Possiamo affermare, infatti, più che mai oggi, che il pubblico ed il Comune sono diventati il luogo della speculazione economica e della mercificazione, per cui i nostri sforzi devono essere tesi verso è il necessario cambiamento del modo in cui immaginiamo e comprendiamo lo spazio condiviso e, più precisamente, del modo in cui si realizza.
A Chelsea, come in generale in ogni città, la dimensione pubblica è sempre più sotto l’attacco delle speculazioni urbanistiche. Sapountzis ha mostrato a New York, uno dei centri del Capitale, la necessità esistenziale e la controversa volontà di ,condividere esperienze e spazi così come la necessità di una conseguente consapevolezza collettiva del valore dello spazio pubblico per la vita di ciascuno.
Credo che oggi, ancora più di prima, sia necessario affermare l’essenzialità degli spazi condivisi perché è il momento di rendere viva la presenza, la volontà ed una consapevolezza comune che non vede distinzioni atomizzanti tra vita “privata” e vita “pubblica”. Credo che sia ormai indispensabile sostenere che queste categorie-distinzioni non possono più reggere e che sono già state erose dalla drammaticità degli eventi, al punto da rimanere solo un comodo strumento di spoliazione utile alla società del capitale e dei consumi.
L’abolizione di ogni distinzione fra spazio pubblico e privato non deve spaventare perché tutti noi viviamo già vite in cui questi confini sono permeabili. Non proteggiamo nulla insistendo su una distinzione che ora serve solo a separarci. Uscendo dall’isolamento, possiamo entrare in un mondo di bene comune. Questo non è idealismo, si tratta di una percezione nuova e condivisa , una sorta di rivoluzione della comprensione. Per questi motivi, più che mai, l’arte deve essere vista come un’azione politica – anche quando afferma di negare qualsiasi coinvolgimento politico: perché se l’arte è fatta dalle persone e per le persone, ha sempre uno scopo sociale dove, lo spazio in cui si forma o si espone diventa rilevante solo in termini pratici ma non nel suo significante. L’arte si svolge tra noi, nel nostro rapporto con l’altro. Questa è l’articolazione perfetta per comprendere un mondo nuovo, non fatto di categorie e separazioni, di spazi chiusi e di disuguaglianze radicate ma, di pensiero condiviso.
Molto spesso nella mia vita ho visto persone che guardavano all’arte contemporanea come ad un gioco per ricchi, un divertimento costoso. Ma la sua attualità è che è fatta da molti, da artisti, curatori, da te e da me che guardiamo l’arte, leggiamo e ascoltiamo, prestiamo attenzione e siamo riflessivi, persone che credono nel suo contropotere, nella sua possibilità di aprire spazi di dibattito e di pensiero attento e conseguente.
Se ho tratto una lezione da questo momento difficile che stiamo vivendo è l’urgenza di affermare l’importanza cruciale dell’arte contemporanea per dare articolazione ad un presente che appare caotico ed, implacabilmente cacofonico, anche in questi giorni segnati dal cupo conteggio dei morti. Si tratta di immaginare mondi possibili. Questo è il tempo del cambiamento che sta arrivando. Sono incerta su ciò che può preannunciare… ma sono sicuramente fiduciosa.